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Giornate Pretiane Percorsi artistici

Mostra di arti figurative. Artisti docenti del Liceo Artistico "Mattia Preti" di Reggio Calabria

Formato: 22 x 24 cm

Legatura: Filorefe

Pagine: 112

Anno edizione: 2003

ISBN: 9788849204292

EAN: 8849204299

UB. INT. : T704A V13b V92a

Contenuto

Questa mostra del, e nel, Liceo Artistico “Mattia Preti” di artisti “che, negli anni, vi sono stati docenti”, o ancora lo sono, va vista e goduta a due sensi diversi: in sé stessa, e fuori sé stessa.
In sé stessa è ritratto corale, storico, che l’insieme delle opere, con i loro autori, propone per dare a questo Liceo una visibilità, tutta sua e anticipatrice, nella futura definizione del Secolo XX in conquiste di scuola e di arte. È un liceo che ha radici lunghe, e vitali. Il passato dell’attuale futuro dell’intero Mezzogiorno d’Italia con la nascita della scuola di Alfonso Frangipane, seme dell’attuale Liceo, ha visto crescere, diventando avvenire in prosecuzione, un evento silenziosamente rivoluzionario. Le cronache di quei primi tempi sono documento di questa inseminazione culturale che da Napoli in giù, dall’ex capitale, aveva nella Penisola un vuoto, magari riempito da maestri ma con ritardi accademici. Reggio Calabria, pur con i paletti di limite che con il senno del dopo oggi appariranno scoperti, divenne epicentro movimentista d’arte. Con una parola del tempo, oggi di ritorno, si potrebbe dire che divenne propositiva “officina” d’arte. Nella scuola, con la scuola. Già il riepilogo di questo cammino pur ristretto, però una tappa luminosa nella produzione di arte cosiddetta pura, arte come arte, dona a questa mostra la potenzialità di restare un avvenimento. È la lettura in sé stessa.
La mostra va oltre sé stessa. Diventa modello da meditare con emozione a mostra in corso, ma anche poi da analizzare come una parallela proposta, da esportare quale sistema di programmazione futura del rapporto tra arte e scuola. In particolare nel versante formativo, superiore, del Liceo. La mostra percorre, negli anni diversi e nelle personalità diverse, un passato certo. In questa “altra” lettura, indica le possibilità e le impossibilità del rapporto tra la professionale docenza e la convergenza della creatività artistica. Abbiamo questa situazione: il docente si fa ed è anche artista operante, l’artista resta docente con le sue responsabilità doppie. L’insegnamento è la proposta, diretta, della propria creatività. Dinanzi all’allievo agisce tale responsabilità doppia, con rischi e risultato non sempre positivo. È come se il docente dicesse: oltre che dalle regole impara su di me.
Tale lettura illumina la manifestazione di possibilità inaspettate, essendo non solo l’Italia, ma l’intera terrestrità, in attese e vigilie di riformismo. Certo, non è nuovo il personaggio artista anche docente. Ne sono pieni gli annali dei Licei e delle Accademie. Non solo in pittura. Nella poesia basterà ricordarci del sigillo su tanti alunni-poeti impresso da uno quale Giosuè Carducci. Da uno quale Giovanni Pascoli. Da uno quale Giuseppe Ungaretti. Nelle nostre accademie ancora si usa dire di un giovane che – oltre le strade dell’insegnamento o delle arti pratiche, parallele – entra nel giro delle mostre, cosiddetto “mondo dell’arte”: Viene dalla scuola di X. Però, questa mostra è altra ben più consistente cosa.
I singoli docenti-artisti sono presentati in una storia collettiva di un sito, di una ambientazione. Dal risultato si potrebbero, con attenzione ed intenzione, ricavare elementi sull’avvenire della scuola legate alla civiltà visiva: dall’arte su cavalletto alla foto destinata a milioni di spettatori, al cinema. Punto di partenza, sempre, la solitudine dell’atto di artista.
La filosofia della scuola, quella nelle aule ora aperte ad altre sussidiarietà con sviluppo inimmaginabile, dovrebbe sostare su una mostra come questa. In una situazione che sempre ci è stata, qui rappresentata come mappa di risultati collettivi nell’individualità (le varie specializzazioni riformiste, confuse nelle genericità col termine di consulenze) abbiamo un documento di verità. È una mostra anche parata di bellezza. Anche testimonianza di trinceramenti di assalto quali le avanguardie, di soste, di conquiste che in alcuni casi appaiono logorate dall’evidenza di essere di seconda mano. La varietà di valori non è difetto di provincia. Reggio Calabria in fatto d’arte non è provincia nel significato falsato di negatività. Le stesse situazioni, oggi, si determinano in metropoli-provincie quali possono persino essere New York o Tokio. Ovunque, dal secondo Novecento in poi, siamo in area di centralità, diretta o riflessa tramite le nuove comunicazioni. Una mostra come questa sarebbe utile anche, diciamo a caso, a Roma o a Parigi.
Torniamo sullo Stretto. I visitatori faranno le loro scelte. Diranno, con diritto di simpatia o di rigoroso giudizio, chi manca. Si sa: tesori nascostissimi possono trovarsi celati nella eredità di firme che non hanno voluto o saputo essere firme visibili nel futuro. A volte qualche tavoletta, un album di disegni rivelano o fanno risorgere un artista. È nella logica. Non c’è dubbio che questa rassegna è un’iniziativa di lealtà, di amore tra memoria e presenza: limpida. Non ci sono esclusioni volute. Di sicuro diventerà forse necessaria una appendice. Chi si avventura in una tale iniziativa corre il pericolo di difetto. La sostanza è senz’altro in parete e in catalogo. Sono questi gli artisti che per presenza diretta hanno avuto, o hanno, una esplicita doppia vita, docenza e creatività nelle opere. Sono tutti? La ricerca appare facile. La risposta è al limite dell’impossibile: le perle del futuro a volte si nascondono.
Una svista da evitare è confondere, e fondere, le presenze in mostra in uno specchio storico totale della storia dell’arte in Calabria, e sullo Stretto. Oppure farne una derivazione di ciò che tra inizio del Novecento e oggi è la Calabria in arte. Già il regionalizzare è una concezione superata. Semmai bisogna guardare, comparare nei siti avvenimenti d’urto, sollecitazioni d’ambiente ed in prima lo stesso colore dell’aria. Questo è invisibile ad occhio nudo, materializzato per lo sguardo dell’artista. Nemmeno bisogna rifarsi, isolandoli, a presenze classiche dell’arte, nel sito. A Reggio pressantemente presenti. Una comunità scolastica, nei docenti più che negli alunni, ha una componente viaggiante di passaggio. Ogni personalità in parete ha una storia personale, e di talune la origine non è regionalizzabile.
Nella comunità scolastica alcuni fittoni restano nel sotterraneo mentale vegetanti per generazioni. L’apporto, iniziale e per taluni momenti anche iniziatico, di Alfonso Frangipane è rimasto non solo nella corteccia. È nell’umore vitalizzante della pianta. Ma tutto è già lontano. C’è, chiarissima in tanti quadri, la conquista dell’attualità. La tentazione di essere nella linea delle invenzioni emotive. Oltre la mostra ma restando nella necessità di spiegarcela, di capirla come avvenimento, si può fare una considerazione che può sembrare avventata: riguarda l’ambiente.
Prima di entrare nel contemporaneo, includendo in tali tempi gli anni di nascita e crescita della scuola di Frangipane sino alla nostra mostra, facciamo un passo indietro. Un carattere della cultura in Calabria, includendovi il Sud-lucano e la sponda dello Stretto dirimpettaia a Reggio, magari sino alla Messina di Boccioni studente, viene individuato con esatta sintesi da un discepolo di Francesco De Sanctis.
Vincenzo Julia nel 1893 tiene ad Acri una conferenza su Vincenzo Padula. “L’Ariosto della Calabria”, per De Sanctis. Afferma: “L’arte non è strumento monocordo”. Quindi, la tradizionalità può essere infranta, allargata. La rottura con la mente tradizionale della cultura calabrese, reduce da ripensamenti magnogreci, è netta: La colonna ionica è spezzata. C’è di più, contro una falsa tradizione, anticipando tempi e modi dell’arte che sarà di oggi, pur nel rispetto delle altrettanto valide, se vive, forme di tradizione. È solo un lampo, quasi ritrattato nel corso della conferenza: “Cresce (ripetiamo 1893) una generazione che ama la cruda realtà, che la esprime in forme ributtanti”. Julia forse le respinge queste forme, ma sa che ci sono. Conclude, con parole che rientrano, 110 anni dopo, nel nostro discorso su tempi nuovi o appena passati: la calabra poesia, come la calabra arte, “ha un doppio significato: è provinciale e nazionale”.
Un secolo addietro “provinciale” aveva diverso senso di oggi, riferito allora ad una comunità oltre il luogo nativo. Nazionale era oltre il muro, al largo. Un preannuncio di cosmopolitismo. La storia dell’arte calabrese è stata, nell’intero Novecento, provinciale e insieme nazionale, svettando poi oltre.
Già nella comunità di Frangipane troviamo, nati nell’Ottocento, due artisti a lui carissimi. Andrea Alfano ed Ezio Roscitano. Pittore e scultore che hanno conosciuto l’attrazione delle rivolte. In loro ci sono consapevoli i sussulti del Futurismo purtroppo evitati. Sino a pochi anni addietro (ed escludiamo da queste osservazioni i nostri artisti in mostra, affidati al gusto e al giudizio dei loro successori, gli ex alunni, nelle patrie enciclopedie il solo nome calabrese riportato era Mimmo Rotella (Nato 1918). La sua affermazione però non è legata alla nativa terra. È rapida stagione ispirata sui muri delle grandi città. Più anziano di pochi anni, Angelo Savelli va oltre la tradizione, tra Scuola romana e ricordi nativi, attingendo lontano a New York il coraggio astrattista.
Già, c’è stato Umberto Boccioni. Solo in recenti anni la sua presenza, tra gli ancora vivi di persona finendo la Prima Guerra, in Calabria era sentita solo da una minoranza. Le istituzioni regionali rifiutarono intorno al 1970 di collezionare Boccioni quando era trovabile a costi medi. Ora è gran moda.
E i suoi figli diretti calabresi?
Si, Antonio Marasco. Si Enzo Benedetto. Si Armiro Yaria. Altri. Da annotare: il loro futurismo recepisce gli aspetti lineari, geometrici della rivolta. Non ne compenetra l’aria. Questa è invece, nel sangue visivo di Boccioni, il vertice. L’affermazione, diventata teoria, della nascita alle arti visive aprendo gli occhi, dimostra che patria pittorica di Boccioni sono mare e cielo di Reggio Calabria, e non le origini di sangue. Tale certezza, anni addietro ridicolizzata, ora è scienza.
È questa la storia dell’arte in Calabria da sviluppare, affidandola ai ragazzi che escono dai licei, ai discepoli degli artisti qui in mostra.

L’essere stato docente nel Liceo che oggi li celebra non significa essere anche gruppi in tendenze, nei risultati. Il visitatore si renderà conto che nelle pareti c’è tutta, o quasi, l’arte italiana del secolo scorso. Il Novecento è presenza con i tormenti innovativi, con le ricadute nella tradizione, però questa nobilitata e resa anch’essa nuova per la lealtà di realizzazione. Le eventuali connotazioni locali, e ci sono, diventano in alcuni casi, aggiunta di preziosità. Anche l’immagine ha i propri dialetti, innalzati a lingua quando, come per alcuni tradizionalisti in mostra, il mistero poetico li universalizza.
Tentiamo una visita indicativa dei nostri artisti, senza ipoteca sulle scelte del pubblico. E di più sulle scelte che la storia dell’arte sta rivedendo per il Novecento, ormai Secolo scorso. Certo, mentre la mostra sarà visibile nel suo insieme, le comparazioni potranno risultare più vicine alla selezione della storia.
Fermiamoci, in anteprima per il catalogo, sui maestri del “Mattia Preti”, senza pregiudizi di valori, senza primi, secondi, ultimi. Tutti sulla linea di partenza avviati alla ricezione, ammirativa o meno, delle generazioni prossime.

Questa mostra andrebbe bloccata, com’è, per tramandarla musealizzata, arricchimento di Reggio, a generazioni da venire. Alla conoscenza di cos’era l’arte nel Secolo XX affacciata sul XXI. Mentre chissà quali novità visive ci attendono. Con Vincenzo Caridi ammiriamo, storicizzate, incertezze e coraggio di ricerca di uno che ascoltò e applaudì, in loco, Marinetti gridare la grandezza di Boccioni. In tale contesto ammiriamo le figurazioni informali di Luigi Malice che danno al colore le “forme” assolute e narranti come fossero, e sono, persona. In tale paesaggio spietatamente umano restano fissate le stesure spaziali di Luca Monaco.
La difficoltà del Secolo è stata la scultura, contrastata tra il “casuale” di forme magari con genio inventate manipolando inalterabile la materia e la sacralità dell’immagine Uomo: una soluzione l’abbiamo, ardita e calma insieme nella perennità del corpo come forma, in Michele Di Raco. Nutrirsi della Luce dello Stretto, con le musiche di Ulisse e la Terra Promessa di una realtà capovolta e più vera, il mito della Fata Morgana, porta Sante Alleruzzo a raccontarci in canto dipinto aria e buio delle sue acque. Il visitatore del possibile reparto museale potrà trovarsi con respiro sospeso sapere come la pur ora vivente presenza di Leo Pellicanò ci fa rimpiangere, immaginando, ciò che poteva, di più, dare non morendo giovane.
Sono, forse tutte con una analisi distesa, opere che si innestano nel contesto dell’arte euroccidentale e moderna, dal vigore innovante di Tito Solendo, al respiro spiritual-paesaggistico di Giuseppe Marino. Il rigore compositivo di Carlo Filosa è nella linea portante dell’arte d’oggi, vincente. La coscienza storico-formale di ognuno dei 42, come in Antonio Conzo, è pienezza operativa dello scontro novecentesco. La limpidezza dell’astrattismo di Ugo D’Ambrosi è tappa di misura e approdi mediterranei di un tale scontro.
La “materia” della pittura, portata spesso all’estremismo dell’essere anche “spirito”, è nel codice genetico dei maestri meridionali, anche nelle spinte di avanguardia. Questo risalta nella figurazione meditata di Giovanni Filocamo. Gli storici dell’arte vanno profilando una analisi dell’arte nel Sud dettata da una interiore, quindi anche formale Linea Jonica. Questo potrebbe dirsi, qui, della scultura di Rosario La Seta. Il Segno moderno, oltre le geografie del Sud, rimane quello geometrico-greco-pittorico: sigillo della più ardita attualità internazionale. In tali armonie della linea troviamo la scultura di Damiano Tondo. Una mediazione di ricerca, con esiti visivamente originali, si sviluppa nella scultura di Gennaro Carresi, per la tentazione del “nuovo” senza rinnegare il “classico”.
Le radici della scultura sullo Stretto restano legate alla forma-Uomo. Si riascolta un maestro quale Antonio Bonfiglio, ponte Otto-Novecento, con i sottintesi romantici che furono, al loro tempo, anche essi, brividi di novità se non di future e innovative avanguardie.
La mostra conferma, oltre il valore in proprio delle opere, una novità nella collettività degli artisti. Il Novecento è stato, nell’intero mondo occidentale e non , il secolo della raggiunta pari creatività, a momenti persino più comunicativa, riconosciuta alla firma al femminile. Fenomeno chiuso, la differenza, che non c’è, ma che è stata. In Italia citiamo due firme generazionalmente diverse, diventate “maestri”: Antonietta Raphael e Carla Accardi. Le citazioni sono di esempio per indicare in mostra la decisa, persino in sfidanti polivalenze di scelte, individualità di Gisa D’Ortona. E la fusione, provocatoria, che Maria Malara Arria determina, con occhio poeticamente diviso tra ieri e il domani, nella formazione del colore.
In tale conquista, del “maestro” come sesso unico nell’arte, vanno citate altre presenze femminili nei docenti-artisti del “Mattia Preti”: senz’ordine Tina Parisi, Enza Scotto, Antonia Marra, Cettina Milici, Liliana Condemi, Rita Alleruzzo.
Questa carrellata, per il cronista che scrive, ha la colpevolezza della provvisorietà e della non informazione. Per molti dei visitatori alcuni quadri riveleranno cercatori dello spirito secondo immagine, qual è il quadro: sia figura, paesaggio, sia di solo linee, solo colori. La storia delle arti, nella nostra area del fare arte e nei tempi qui rappresentati è negli auguri, rivelerà altri, e magari artisti più vincenti. Con le altre firme che ammireremo in parete: senza ordine Gaetano Corsini, Emilio Caputo, Emanuele Floridia, Domenico Fantozzi, Celestino Petrone, Ermonde Leone, Rocco Grasso, Italo D’Auria, Antonio Romano, Pasquale Marino, Aldo Familiari, Giuseppe Verona, Nuccio Bolignano, Gaetano Scordo, Gaetano Zito, Nino Pizzimenti, Carmelo Tenio, Tonino Ruzzo.
Non è un elenco. È appuntamento.

Questa è mostra aperta. Non possono esserci conclusioni, per le possibili conseguenze a catena. Il visitatore sensitivo farà da se un bilancio-giudizio. Anche opposto a quello qui accennato. Certo è il legame, nelle maggioranze degli autori, tra sito in cui si lavora e resa. Lo spirito del luogo, come delle persone intorno, può essere inavvertibile, ma c’è. Il gioco dell’arte è anche tentare, attraversare, restare e uscire dai nostri labirinti. Per questi artisti, pur rifiutandolo, Reggio e lo Stretto sono parte del loro labirinto della vita, nella loro opera. Vi è nella pittura sovvertitrice di Boccioni.
Sarà utile indagare sui problemi suggeriti delle mostre, nel futuro di arte-scuola-applicazioni. Tesi di laurea su artisti singoli e tempi nell’area culturale potranno far rivivere o ridimensionare uomini e gruppi, togliendo a chi di troppo ha avuto, ridando a qualcuno. La mostra entra nei cicli della storia. Il metodo della rassegna è una novità, innescando in finale l’interscambio tra docenza e scuola. Va segnalato all’attenzione del lavoro parlamentare, governativo e degli specialisti per gli aggiornamenti epocali della scuola.
Resta –come per chi scrive, davvero con umiltà– soffio di felicità della mente la compartecipazione a questo evento. Si dovrebbe estenderlo a tutte le istituzioni scolastiche in cui vi è rapporto inevitabile tra docente e la eventuale destinazione d’artista del “discepolo”: nel senso concreto di bottega dell’apprendere e del quindi far uso di ciò che si è appreso. In formula: cerchio chiuso ruotante artista-studente-artista e di seguito.
Per tutto, il grazie al Preside Gisa D’Ortona diventa ammirazione per l’innovamento: avere indicato, progettando questa mostra, un metodo di ricerca con la verifica per migliorare la realtà. C’è un di più: il pensiero didattico viene espresso nella gioia della creatività umana, quale è l’arte. Nel lasciare le pareti della mostra, come dopo la visione delle immagini in questo catalogo, ricordiamoci: i maestri esposti sono stati studenti, gli studenti di oggi saranno maestri. Così, nel felicissimo di seguito.

Giuseppe Selvaggi

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