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Alias Voces

Taormina 2006

Formato: 21 x 29,7 cm

Legatura: Filorefe

Pagine: 32

Anno edizione: 2006

ISBN: 9788849209969

EAN: 8849209967

UB. INT. : T317G V12b

Contenuto

È stato detto che la pittura di Liliana Guarino si nutre di suggestioni culturali ed emotive strettamente legate al suo territorio d’appartenenza, Modica, nella cui vita sociale la Guarino ricopre un ruolo che non si esaurisce certamente nella sola attività artistica.
Non dubito che sia così, ma diffiderei dal credere che la pittura della Guarino sia legata in modo troppo vincolante al microcosmo di Modica, se non addirittura a quello di Rassabbia, le campagne nella strada per Frigintini dove la Guarino si rifugia per potersi concentrare al meglio, lontana dalle pressioni degli impegni pubblici, in un eremo sereno e confortevole che condivide con quanti vogliano soggiornare nelle sue antiche e rinnovate stanze. Al contrario, ho l’impressione che nella pittura della Guarino sia avvertibile un chiaro, evidente sentore di internazionalità, sul piano della forma come su quello dei contenuti, capace di porla in una dimensione di universalità che bilancia ampiamente il debito nei confronti della cultura locale di Modica, per quanto essa possa risultare rassicurante e affettivamente coinvolgente.
È un’internazionalità che dal punto di vista formale si compone di radici diverse e complementari, eredi di esperienze artistiche che sono state le più significative nel corso del Novecento. Radici che potrebbero essere state incrociate dalla Guarino anche in modo istintivo piuttosto che secondo intenzioni esplicite e dichiarate, probabilmente per via di una formazione atipica e non monotematica, autodidatta e variata nei molteplici interessi, alternata a quella professionale che l’artista ha maturato nell’ambito delle scienze naturali. Radici che comunque vengono rintracciate in un modo che sembra netto e consapevole, anche dal punto di vista della consequenzialità storica, senza individuare per esse alcuna contraddizione che impedisca la possibilità di una loro accorta e soddisfacente simbiosi.
Da una parte, esiste nell’arte della Guarino una componente astrattista che prende atto della svolta determinata dall’Informale, nelle sue manifestazioni europee (Wols, Mathieu, in parte Vedova) come in quelle americane (l’Action Painting di Pollock e di Hofmann), individuando nella perfetta simultaneità del gesto-segno-colore-materia la chiave di un nuovo modo di concepire la pittura, ugualmente individuale e lirico, vitalistico e spiritualistico. Dall’altra, c’è una componente figurativa che è spiccatamente espressionista e riunisce in un unico calderone, sincronicamente, il medievalismo primitivo di Kirchner e di Die Brucke, il Brut di Dubuffet, l’Espressionismo Astratto di De Stael e De Kooning, combinandoli con più recenti diramazioni quali possono essere ritenute la Transavanguardia di Clemente e De Maria, il “Post-Neue” di Baselitz, il Graffitismo di Basquiat. È una radice fondamentalmente nordica, “tribalista” nel concepire la figurazione in un modo quanto più possibile elementare, affinché non venga interrotto il flusso di energia interiore e irrazionale che una diversa disposizione mentale, maggiormente razionale e “culturale”, potrebbe del tutto adulterare. È una radice che rinnega decisamente lo spazio come entità misurabile col sistema metrico decimale, riconoscendo alla sua dimensione planare la precisa corrispondenza con una condizione dello spirito che niente può avere a che fare con le convenzioni illusionistiche della mimèsis.
Confrontatasi con queste differenti radici, la Guarino è riuscita a convogliarle in una matrice comune che nel dichiarare la propria modernità adotta una linea espressiva caratterizzata da un forte anticlassicismo, poco sensibile alle lusinghe di una tradizione italiana che avesse come primi riferimenti storici Giotto, il Rinascimento e la Metafisica, quindi la priorità del disegno, la resa prospettica dei volumi e della profondità spaziale, il perseguimento di un determinato sapere tecnico da interpretare come un’evoluzione aggiornata del “buon mestiere antico”.
Ecco perché sarebbe opportuno considerare la “sicilianità” culturale di Liliana Guarino, anzi la sua “modicità”, come una categoria critica da concepire in modo necessariamente elastico e relativo, se è vero che si avrebbero ottimi argomenti per mettere in dubbio perfino l’“italianità” e la “mediterraneità” della sua arte. Impressionantemente nordico, e lontano da qualunque visione distaccata del mondo, è per esempio il profondo senso del dramma esistenziale che pervade molte delle opere della Guarino, assai più vicino a Soutine e a Bacon di quanto non possa essere a De Chirico o a Balthus. Un senso del dramma che potrebbe anche sorprendere in una donna come la Guarino, che apparentemente avrebbe tutte le ragioni per sentirsi bene appagata dalla vita. E che invece, nel privato delle sue meditazioni, cerca nell’arte non la soddisfazione di ambizioni mondane, vanesie, strettamente personali, non la consolazione di un canone estetico dal valore universale, ma l’urlo più disperato dell’anima collettiva che si oppone alla negazione della giustizia e del piacere, selvaggio e incontrollabile, empirico nelle sue variabili manifestazioni, confidando nella sua forza dirompente e rigeneratrice.
È un’arte che volutamente inquieta e intimorisce, già a partire da certi titoli ermetici e sibillini, un po’ come quelli di vecchi film thrilling alla Dario Argento. È un’arte che si esemplifica come un processo di lacerazione interiore e di espiazione morale, duro e sofferto come la Passione, che dal dolore della dannazione intende condurci al riscatto, alla salvezza, al conseguimento intuitivo delle verità primigenie dalle quali derivi ogni senso possibile riguardante l’uomo e la natura.
Ma si tratta di un limbo che non finisce mai, una strada terribilmente lunga e tortuosa per la quale talvolta temiamo di non intravedere alcun traguardo positivo. E il dubbio non può che macerarci, corrodendo a poco a poco.
Vittorio Sgarbi

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