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Giangaetano Patanè
32 rooms
A cura di: Rossi Sergio, Strinati Claudio
Formato: 22 x 24 cm
Legatura: Filorefe
Pagine: 80
Anno edizione:
ISBN: 9788849208351
EAN: 8849208359
UB. INT. : T443G V13b
Contenuto
Le “stanze” di Giangaetano Patanè
Claudio Strinati
Questa mostra rappresenta, per la carriera di Giangaetano Patanè, una fase di esaltazione di un’idea figurativa che lo accompagna da qualche anno e che ha avuto sviluppi interessanti fino a culminare in ciò che oggi viene presentato al Vittoriano.
Patanè ha concepito la mostra come un insieme organico che vuole porsi davanti al visitatore come una sorta di “albergo”, come lo ha definito lui stesso, in cui si possa trarre una esperienza estetica particolare e necessaria.
È un insieme serrato e le opere sono tutte permeate di riferimenti interni come se l’artista volesse raccontare una storia o una sequenza costituita di tanti tasselli che si corrispondono, si integrano, si sovrappongono.
E, effettivamente, in alcuni esempi la cosa è evidente, basti considerare l’immagine reiterata dell’uomo fucilato, desunto da una celeberrima figura di Goya, e sottoposto a quel criterio della “riformulazione” che, in senso lato, è scaturito da una precisa esigenza del nostro tempo riverberandosi nella esperienza estetica di artisti, come appunto Patanè, tesi a privilegiare l’introspezione e la riflessione . La “riformulazione”, infatti, è quel principio in base a cui un artista estrae, dal lavoro di predecessori insigni e consacrati, uno o più aspetti, portandoli fuori dal contesto originario ma mantenendo loro il senso profondo che venne impresso dal creatore. E questo accade, appunto, con la figura del fucilato goyesco. Patanè ne estrae una sorta di sagoma, di sigla che lo lascia riconoscibile rispetto al supremo prototipo dell’artista antico e lo sottopone a una serie di varianti, basandosi su una tecnica singolare e innovativa, quale è la pittura a cera, e su un senso acutissimo del colore, come se quella figura, sbalzata fuori dal quadro di Goya, restasse totalmente isolata e venisse investita da altrettanti violenti fasci di luce che ne mutano in continuazione l’aspetto fin quasi a annullarlo. L’idea del terrore e della tragedia incombente che Goya impresse sull’immagine originaria è assunta da Patanè come consustanziale alla figura e il giovane maestro ne esaspera l’essenza. Se nel quadro di Goya la figura del fucilato è immersa nell’insieme della scena e spicca per tragica grandezza, qui ne emerge proprio il carattere profondo impressovi da Goya che è quello, appunto, della solitudine e del tragico confronto che ognuno di noi inevitabilmente è sollecitato a affrontare rispetto al crudo manifestarsi della violenza, del terrore, della morte.
E così Patanè, riformulando il prototipo goyesco, parla di se stesso e, attraverso quel prototipo, di ciascuno di noi, e quella sagoma essenziale può essere assunta a modello e riferimento di tutta la sua pittura che propone in effetti figure meditative e come rinchiuse in un proprio cerchio magico costituito da un pensiero intimo e dolente ma non privo di una sorta di sotterranea autoironia e disincanto.
Perché questo è l’altro aspetto, concomitante e non contraddittorio, del linguaggio di Patanè, una sorta di contraltare che si insinua nella compattezza della stesura, ed è proprio la leggerezza estrema e stralunata di chi osserva con distacco il suo stesso operare. Le forme dell’artista, infatti, sono tutte costruite con un senso nitido e limpido dell’immagine, attraverso un cromatismo acceso e netto che conferisce all’insieme del quadro un senso di pienezza e positività, fortemente contrastanti con i contenuti mesti e intimi promananti dai quadri.
Magri e slanciati i suoi personaggi sembrano degli eterni adolescenti gravati da un curioso “ male di vivere” che li porta a galleggiare in uno spazio inesistente e remoto come se una volontà che li sovrasta li muovesse e li comandasse riducendoli a forma essenziale. Ed ecco i Fidanzati, due quadri in cui sembra di veder emergere una sottile e malinconica ironia, la Conversazione platonica scaturita dal cervello dell’uomo assumendo forma femminile, la Donna seduta accanto a un vaso di fiori, solitaria e mesta, mentre sul vaso si materializza una ben esplicita scena di sesso, la fervida nuotatrice di Sognando tra Scilla e Cariddi, e le gigantesche Teste in cui prende letteralmente corpo una sorta di mondo primordiale come gravato da un peso gigantesco di ricordi, di speranze, di attese, di solenne sosta nel tempo.
La tematica di Patanè è proprio quella dello “stato d’ animo”, di ciò che può essere fermato dall’immagine e immobilizzato nella vastità della stesura pittorica e si capisce bene, allora, come la Barca di Boecklin, raffigurata nella sua assoluta quintessenza di schema, corrisponda a quei distratti fantasmi visivi che si vedono in certi quadri assai strani e innovativi come Il peso del cielo del 2003 e Se non mi guardi, muoio del 2005.
Spazi della contemplazione ma vividi depositi di emozioni e di passioni, tutt’altro che rimosse ma rappresentate senza descrizione ma solo per via intuitiva.
Si coglie qui la vena più autentica di Patanè, un pittore dotto ma mosso da un istinto assolutamente sicuro che non ha bisogno di esplicitare il senso delle sue immagini con commenti capillari ma che resta autentico e riconoscibile in tutte le varianti della sua creatività.
Come è accaduto a certi nostri grandi maestri del secolo appena trascorso, Patanè, proprio nella definizione e approfondimento di un patrimonio figurativo essenziale e mai ripetitivo, rivive esperienze che furono, mutatis mutandis, quelle di un Morandi o un De Pisis. Si tratta di una sorta di “fissazione” della forma che consente all’artista di sprofondare nel proprio immaginario attraverso un principio assai simile a quello della “variazione” musicale.
L’individuazione di un tema che domina con la forza perentoria della propria presenza consente all’artista di dipanare, da quel presupposto, una trafila ininterrotta di immagini che si manifestano come altrettante epifanie di un contemplatore che scruta il proprio universo vigilandone le mutazioni e imponendo su tutto il marchio di una personalità vivida e multiforme.
Nel passare da una “stanza” all’altra si reitera l’incontro con sé e con l’altro, mutando continuamente punto di osservazione e scoprendo ancora una volta una nuova uscita.
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