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Giulia Napoleone. Altro inverno

Formato: 17 x 24 cm

Legatura: Filorefe

Pagine: 48

Anno edizione: 2007

ISBN: 9788849213164

EAN: 8849213166

UB. INT. : T511a V15c

Contenuto

Tra l’estate e l’autunno del 1935, a Montemurro, Leonardo Sinisgalli scrive Quaderno di geometria il cui titolo originale era Casto inverno. Questo titolo mi è ritornato in mente all’improvviso, insieme alla frase di Lautréamont, scorrendo i quattordici disegni di Giulia Napoleone ispirati alla “Valle del Fiume che sale” e raccolti all’insegna di Altro inverno (2003-2005), continuazione ideale delle sequenze di Ultimo quarto (2001).
Il crepitío del fuoco che anima questi fogli è il medesimo. I segni paiono traversare nel nevischio un intero continente, sintetizzando in un punto, che è al tempo stesso forma, le convergenze di Klee, i fantasmi di Fontana, i diagrammi di Novelli, le estensioni di Sanfilippo, le facezie di Tancredi, le cellule di Angeli, le ombre di Guccione. L’immagine del corpo duro di un lembo di terra del nostro pianeta trova la sua rigida compattezza solidificandosi, anche nelle sue sonorità, tra mare, cielo e montagne, per ritrovare la propria anima in un granello di sabbia che è fumo, odore e luce.
Agli infiniti intrecci che pervadono i territori attraversati da Giulia, alimentati di continuo da elementi tesi a riflettere il barbaglio del sole, corrisponde un centro di confluenza che è il disegno, da sempre abituato a una rilettura dell’architettura del paesaggio, alle geometrie impercettibili, alle piccolissime molecole che restituiscono strutture sferiche tese a catturare estensioni dall’alto, così da presentare l’altra faccia del visibile, in un continuo rimando alla lastra da incidere e viceversa.
Giulia mette insieme parti di natura, cerca di ricomporre l’infinita quantità di frammenti che sagoma lo specchio di un suo paesaggio, tutto mentale, che sembra aver avuto inizio dal momento in cui la mano ha incominciato a muoversi sul foglio e si annuncia senza fine, perché dopo di lei qualcun altro continuerà a cercare il proprio equilibrio tra ascensioni e cadute di segni, addensarsi e diradarsi di punti, lacerazioni improvvise di un terremoto che non vuole distruggere o abbandonare lacerti di oggetti e di memorie ma solo suggerire quanto si muove sotto quelle tracce apparentemente compatte.
Il segno, perciò, purgato di ogni artificio, descrive ed alimenta la forma, si muove per reticoli e perle di luce, toglie alla forma ogni staticità, la rende perpetuamente mobile, anima ciò che si fa immagine senza abbandonarsi all’istinto e sottraendosi al pericolo di dover evocare il punzone come una presenza soffocata. L’incisione non è l’ombra o la guardia vigile del disegno edificato sulla parete luminosa delle riflessioni. Il legame di affinità rende l’uno il laboratorio dell’altra, anche se il fuoco di una ricerca silenziosa ma tenace, del senso della misura e della posizione, viene concentrato nella disciplina come costante di un pensiero pronto a dilatare la forma di tutti i corpi, i loro confini evidenti e la loro espressione meno apparente, i legami sottilissimi che sostengono il magma delle cose e il linguaggio gremito edificatovi. Ne deriva una sorta di profilo di geometrie generate da un calore latente che tiene vivi fossili e astri, tra vapori di nuvole e tappeti di polvere.
Una geometria come metafisica dell’occhio, allora, per formulare un modello di armonia sulle strade misteriose del ricordo concentrato su spazi piccoli come sepolcri segnati dai secoli? Le figure generate secondo principi matematici non dissimili dai ritmi dell’esametro, scandiscono con determinazione risultati di un rapporto numerico caro all’architettura e alla musica, entrambe rintracciabili nel meccanismo della visione, nei legami che l’animazione luminosa pone tra i corpi, nella percezione delle cose viste a distanza, qui e là tondeggianti o smussate, tutte in ogni modo indirizzate a rivelarci il risultato di un incontro della macchina logica con la fantasia.
L’ordine continuo che ne deriva, attento a dar valore a ogni minimo accidente, a rendere vivo l’infinitamente piccolo e la costante similitudine degli “insieme” ben ordinati, in un vincolo indissolubile tra numero di segni tracciati secondo un preciso codice gerarchico, intensità di spazi bianchi e immagine definita, conferma il principio di Dedekind e le convinzioni surrealiste di Apollinaire: “Tra due punti di una retta c’è sempre posto per un altro punto”, fino al limite dell’infinito.

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