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Il testamento di Leon Battista Alberti. I tempi, i luoghi, i protagonisti
Il manoscritto Statuti Mss. 87 della Biblioteca del Senato della Repubblica "Giovanni Spadolini"
A cura di: Bentivoglio Enzo
Formato: 24 x 30 cm
Legatura: Cartonato
Pagine: 104
Anno edizione: 2005
ISBN: 9788849208429
EAN: 8849208421
UB. INT. : T441B T500a BRAMP
Contenuto
Biblioteca di Giano
Collana ideata da Enzo Bentivoglio
Volumi già pubblicati
1. Architettura greca e romana Tavole dalla Kunstgeschichte in Bildern di Franz Winter, a cura di Enzo Bentivoglio;
2. Le incisioni del Giangiacomo delle Lunette dipinte dal Pinturicchio e da altri artisti di scuola umbra nel Chiostro Grande del Convento Agostiniano di S. Maria del Popolo a Roma, a cura di Enzo Bentivoglio e Simonetta Valtieri;
3. Giardino romantico in Italia tra ‘700 e ‘800 negli scritti di Marulli, Pindemonte, Cesarotti, Mabil e nel Recueil de dessins di J.G. Grohmann, a cura di Enzo Bentivoglio e Vincenzo Fontana;
4. I progetti per la Diocesi di Messina nel concorso del 1932, a cura di Clementina Barucci; Trascrizione critica dell’edizione integrale e nota al testo di Giuliana Crevatin;
testi di Marcello Ciccuto, Paola Benigni, Brenda Preyer, Bruno Mussari, Sergio Bettini, Tommaso Manfredi, Simonetta Valtieri
Il Testamento di (Leon) Battista Alberti conservato presso la Biblioteca del Senato della Repubblica “Giovanni Spadolini”, che qui si pubblica, si presenta ora in piena luce nella dimensione originale, smagliante nei colori della sua prima pagina ornata, delle sue lettere iniziali filigranate e ornate da lunghe code e nel fascino dei ritmi di un’antica ordinata scrittura. E sì che per oltre quattro secoli questo significativo documento (compresi atti successivi da questo originati) – da considerare quale estremo tassello documentale di una vita sensitiva e di una vicenda culturale di un protagonista dell’Umanesimo – è rimasto all’ombra, sigillato entro le «Costitutiones Collegij decem Clericorum!»
Da questa ombra lo trasse fuori Luigi Ferrari, che produsse una prima parziale trascrizione con un commento, inserendolo in una pubblicazione d’occasione; da ciò scaturì il saggio di Girolamo Mancini, il quale impostò le varie notizie che emergevano dai documenti contenuti nel Ms. verso percorsi a carattere prosopografico. Particolarmente esteso fu quello dedicato a Antonio Grassi, «uno degli esecutori testamentari, quello che tradì la pienissima fiducia in lui riposta» dall’Alberti, colui che sostituì i primi beneficiarî di casa Alberti e i giovani poveri con “ragazzi canterini”. Altro tema su cui si sofferma il Mancini è quello relativo alle «dicerìe sul paganesimo di Battista» che confuta, riconoscendolo – a partire dalle sue «supreme volontà sebbene espresse da un notaro fedele alle formule abituali» e da più incisive argomentazioni – quale cristiano credente”.
Nell’esordio del Testamento (2, 2-3; 7, 38-39) domina quel Vigilate, tratto dal Vangelo secondo Matteo così come da quello di Marco: è l’ammonimento cristiano ricorrente; infatti lo si può leggere – scegliendo due estremi limiti temporali – sia nel testamento del cardinale Egidio Albornoz, che in quello di papa Giovanni Paolo II e – in una veloce estensione di lettura – questo esordio può essere letto in modo convenzionale se seguiamo in pieno il percorso manciniano delle “formule abituali”. Ma è leggittimo farci sorgere il dubbio che nell’esordio sia contenuto, nel richiamo celato all’Autore – espresso tramite quel sicut flos e quel velut umbra – l’ultimo “scritto” di Battista, anzi di Leon Battista Alberti relativo alla condizione di tutta la sua esistenza terrena? Infatti è dal Libro di Giobbe – fors’anche letto attraverso il commento di S. Agostino – che deriva il pensiero che l’uomo «sicut flos egreditur et conterritur, ac fugit velut umbra» (2, 9-10; 7, 48), e ciò non fa parte delle “formule abituali”.
Da poco più di otto mesi Sisto IV era il papa e non sappiamo quali rapporti si fossero già intessuti tra il dotto Francesco della Rovere – oltremodo stimato dal cardinale Bessarione – e l’Alberti, e come questi poteva essere stato “consultato”, in quel breve lasso di tempo, da colui che stava proponendosi quale “Urbis Restaurator”. In ogni caso il Pontefice, che per otto anni aveva ricoperto il ruolo di Generale dei Minori, aveva stemperato i “tempi lunghi” consoni alla sua dotta formazione, in atti dalle “rapide” decisioni-azioni, e pertanto gli necessitavano veloci “ideatori-esecutori”, così come si può evincere scorrendo la documentazione relativa agli artefici che per lui lavorarono già dai primi mesi del suo pontificato. Forse l’Alberti si trovava in quel quid minimum della condizione umana – come egli aveva scritto ne la “Vita”- «quod inter hominum est, atque cadaver». Il fatale mese di Aprile stava per presentarcelo «languens et infirmus corpore» (7, 49-50), e così il Pontefice poté usufruire poco del meditato e raffinato pensiero di uomo ormai “stanco” e malato. Chissà se a Battista che «caput habebat a natura frigoris, auraeque penitus impatientissimum», non fu fatale l’avere accompagnato, a cavallo, attraverso le antichità di Roma, Lorenzo de’ Medici e altri venuti da Firenze nell’ambasceria della città al nuovo papa?
Non è che l’Alberti sia stato particolarmente “ricordato” nella Curia romana e dai pontefici. Pio II una sola volta ricorda «Baptista Florentinus ex Albertorum familia, vir doctus et antiquitatum solertissimus indagator»; dunque il pontefice menziona Alberti esclusivamente come uomo di “cultura” e non come architetto, forse perché “imbarazzato” che il «nobile templum Arimini in honorem divi Francisci», da questi ideato, fosse collegato all’allora scomunicato Sigismondo Malatesta, il quale «gentilibus operibus implevit, ut non tam christianorum quam infidelium demones adorantium templum esse videretur».
Alberti, già dalle sue lontane permanenze in Bologna, sicuramente aveva avuto la possibilità di conoscere e frequentare gli esponenti della famiglia Grassi, significativamente presenti nel governo civile e religioso della città; da ciò, e dal suo ruolo in Curia, può derivare la presenza di Antonio quale suo esecutore testamentario insieme al cardinale pistoiese Nicolò Forteguerri, «iuris scientia clarus», come lo ricorda, con lapidaria incisività, Pio II a lui legato da vincoli di parentela. Ma è nel giudizio, espresso nella lunga lettera consolatoria che il cardinale Iacomo Ammannati Piccolomini scriverà al cardinale Berardo Eroli in occasione della morte del Forteguerri, che si paleseranno i motivi di quella che va intesa come una stretta amicizia con l’Alberti, forse un sodalizio fondato sulle doti morali di quello: «in senatu ad consulendum liber, ad disserendum rectus, ad bene vivenda omnia perspicax (…). Taceo vitam eius privatam, modestiae sacerdotalis ac continentiae certissimum specimen». Infatti i richiami al bene vivere, alla modestia e alla continentia sono ampiamente diffusi nelle opere di Alberti.
Il 1472 si apre “segnato” dalla data 15 dicembre 1471, quando i due nipoti del Pontefice, Pietro e Giulio, senza alcuna “carriera” alla spalle, vengono elevati alla dignità cardinalizia. La lettera del 14 gennaio 1472 dell’Ammannati al Forteguerri contiene un’invettiva – l’incipit ne offre tutto il senso –: «O miseram Ecclesiam, (…) non etiam miseriores (…) », che si rafforza, verso la conclusione, con quel «Timeo nobis et propter nos Sedi Romanae»; in queste parole vi è la testimonianza del malessere in cui si agitava la “vecchia guardia” del Collegio Cardinalizio e lo sfogo, sicuramente partecipato, di chi era stato elevato alla dignità cardinalizia dopo una lunga “carriera” e per qualità universalmente riconosciute, come l’Ammannati, già segretario del virtuoso cardinale Capranica e lo stesso Forteguerri.
Quella sua Roma su cui Leon Battista Alberti stava per chiudere gli occhi, era una Roma che usciva ferita nelle espressioni della sua libertà culturale dalle vicende dell’Accademia Romana e pertanto LEO BAPTISTA ALBERTVS, non era più lì, in astanza, a proporsi nella “corporalità” della sua effigie espressa attraverso il possente ritratto di profilo, “cifra della maestà e del potere”, e contemporaneamente a “nascondersi” nel mistero del simbolo dell’occhio alato e fiammeggiante. Se all’occhio alato sostituiamo ora la sincerità di due grandi veri occhi, in uno sguardo penetrante di rassegnata severità, è così che si presenta e ci fissa l’uomo Messer B. Albertj, e attraverso gli occhi del Canis-Battista che, «At oculis pietatem atque modestiam matris perquam belle gestiebat», è la di lui madre che ci guarda.
A questo punto un pensiero leggittimo sarà sorto: QVID TVM?
Si separi Leon Battista Alberti dalla Pittura, dalla Descriptio, dalla De re aedificatoria, dalla De statua, dove sono cose un “po’ superate”, atte per altri, e conosceremo Battista vivo «(…) destro, robusto de la persona, animoso, ardito, mansueto e riposato; tacito, modesto, motteggioso e giocoso quanto e dove bisogna; lui eloquente, dotto e liberale, amorevole, pietoso e vergognoso, astuto, pratico, e sopra tutti fidelissimo; lui in ogni gentilezza prestantissimo (…)» e lo vedremo – come uno spavaldo giovane di oggi – a Firenze o a Bologna mentre «col sinistro pié rasente al muro del Duomo, scagliando in alto un pomo, superava più molto il culmine dei tetti. Così una piccola moneta d’argento con tant’impeto in un tempio in alto lanciava, da far sentire a chi quivi era con lui il suono della percossa nella volta».
Ma ritornando all’estremo documento dell’uomo Alberti, il “Testamento”, ove non si testimoniano che delle volontà, mentre di Leon Battista Alberti, non si ricorda nulla, né un libro, né uno strumento, né una madaglia, né carte; probabilmente tutto doveva risultare compreso nel lascito a Bernardo Alberti, quale «heredem suum universalem » (2v,14) e noi, uomini di oggi, restiamo sconcertati e smarriti di non potere leggere un inventario come quello del cardinale Bessarione, del cardinale Marino Grimani, di un Martelli o del Longolio, per immergersi in esso e scoprire quelle «literas ipsas suis sub oculis inglomerari persimiles scorpionibus».
Battista ci lascia per un riposo temporaneo nella chiesa di S. Agostino, che lì a poco sarà sconvolta dai rifacimenti del cardinale Estouteville, vanificando quello definitivo, «Padue in sepulcro patris».
Ora, se quanto è superstite dei libri e delle carte di Leon Battista è sparso per il mondo e il corpo di Battista si è dissolto, anche della casa da lui abitata in Roma per ora nulla si è scoperto; ma egli ce la fa immaginare e “riconoscere” forse in una delle tante case ancora esistenti – magari oggi con qualche piano in più – poste «in regione pontis, et in parochia sancti Celsi», case ora come allora ad alto reddito, in virtù della posizione: «Domum vetustam, obscuram et male aedificatam, in qua divertisset, tritavam atque idcirco nobilissimam aedium appellabat, siquidem caeca et incurva esset». Non ci sono dubbi è proprio una casa di un curiale, non ricco, della Roma di quei tempi!
Enzo Bentivoglio
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