Intervista all’autore del volume PARLA IL CAPO DELLO STATO Tito Lucrezio Rizzo, edito per i tipi della Gangemi editore
Intervista all’autore del volume PARLA IL CAPO DELLO STATO Tito Lucrezio Rizzo, edito per i tipi della Gangemi editore
Si riporta integralmente l’intervista all’autore del volume Parla il capo dello stato. Sessanta anni di vita repubblicana attraverso il Quirinale 1946-2006 Tito Lucrezio Rizzo, pubblicato per i tipi della Gangemi editore, riportata dal quotidiano online romasettimanale.it.
Incontro Tito Lucrezio Rizzo, che non è solo studioso del pensiero giuridico. Consigliere Capo Servizio della Presidenza della Repubblica, ha conosciuto e collaborato con i quattro Presidenti, da Sandro Pertini a Carlo Azeglio Ciampi, oggetto del suo libro, “Parla il Capo dello Stato”, nel quale tratta altresì dei predecessori dall’avvento della Repubblica, avvalendosi di documentazione archivistica, recentemente pubblicato dalla Gangemi. Si tratta, come prosegue il sottotitolo, di “Sessanta anni di vita repubblicana attraverso il Quirinale 1946- 2006”. Probabilmente, qui, sul “colle più alto” di Roma, ha avuto la fortuna di raggiungere il massimo cui un appassionato come lui della Legge possa aspirare. Ne è proprio un appassionato. Ha scritto e pubblicato numerose opere sulle materie che fanno parte organica della sua vita.
Se Rizzo è stato qui con cinque presidenti, gli altri sette se li è studiati a fondo visto che ha avuto la possibilità di vivere gli stessi luoghi, le stesse atmosfere; soprattutto, le stesse carte da loro “sudate”. In alcuni casi, però, e lo intuisco anche da indiretti riferimenti presenti tra le sue affermazioni, non si è limitato alle carte ufficiali. Il suo è stato un vero e proprio impegno da storico. Così, si è messo alla ricerca di tutti quei documenti disponibili, anche al di fuori dell’Archivio del Quirinale, in grado di arricchire il tratteggio della figura, del pensiero e dell’azione degli undici uomini succedutisi in uno dei compiti più delicati previsti dalla nostra Costituzione.
La ventura di occupare un osservatorio del tutto particolare. Qui, dove le leggi sono promulgate, il Diritto si interseca con la sua concretizzazione pratica nelle disposizioni ed è costretto a misurarsi con le grandezze ed i limiti degli uomini, le loro passioni, i loro slanci ideali o le miopie, così come gli “interessi” cui sono legati.
“Oggi non si discute più la legittimità dell’esternazione presidenziale, – dice Tito Lucrezio Rizzo a RomaSettimanale.it – c’è un clima rissoso che continua a caratterizzare la vita politica italiana. Allora, alcuni, ritengono persino doverosi e salutari gli interventi del Presidente della Repubblica per esercitare la funzione di garanzia dei valori e dei principi costituzionali che gli è affidata”.
Dottor Rizzo, la sua opera mi sembra porti alla constatazione che, con tutti i presidenti, sono rimaste moltissime questioni irrisolte: Giustizia, rapporti tra i poteri dello Stato, squilibri tra aree geografiche, il lavoro.
“Più che non risolti, si tratta di problemi destinati a ripresentarsi ciclicamente. La cosa mi fa pensare alla visione vichiana dei corsi e dei ricorsi storici. O alla concezione di Wolfang Goethe, ripresa da Benedetto Croce, per i quali anche i momenti di crisi fanno parte dell’idea eterna di progresso. Non è una linea retta, ma una sorta di tornante, con salite e discese. L’esempio viene anche dal Presidente Luigi Einaudi che fa una fotografia perfetta della ciclicità dei fenomeni”.
Guardando alla figura del Presidente è come se la Carta Costituzionale gli affidasse una “ambigua” posizione tra “irresponsabilità” e momenti decisionali forti. E’, ad esempio, lui che dà gli incarichi di governo e nomina i ministri. Presiede il Csm, fa nomine importanti. Però non è responsabile degli atti che compie.
“Il Capo dello Stato è una figura dotata di autorità, auctoritas latina. Non di potestas, cioè di potere effettivo. E’ una figura sacrale perché il suo ruolo non è legato alla coercitività, bensì all’autorevolezza morale. E’ stato tutto delineato dai Padri costituenti. Anche sulla base dell’esperienza vissuta prima della nascita della Repubblica.
In due prospettive. Da un lato, per evitare il ripetersi del rischio della “ monocrazia”. Dall’altro, per recuperare, quello che era stato, in fondo, anche il ruolo prevalentemente morale del Re, come simbolo dell’unità nazionale. Per sommi capi ci limiteremo a ricordare che egli rappresenta l’unità nazionale, quale “potere neutro” al di sopra ed al di fuori del legislativo, dell’esecutivo e del giudiziario.
Quando si parla di esternazioni del Capo dello Stato, ci si riferisce ad una consuetudine che, preso vigore a partire dal presidente Pertini, consistette nel rivolgersi direttamente ed in maniera informale all’opinione pubblica, e quindi si tratta di un’ipotesi ben diversa da quella delineata dal legislatore costituente.
Quest’ultimo ha contemplato il messaggio, che il Presidente può inviare solo alle Camere prima di promulgare una legge per chiederne motivatamente il riesame, o per richiamare la loro attenzione su alcuni problemi avvertiti dalla collettività e non tradotti in appropriate soluzioni legislative.
Una particolare funzione di garanzia è espletata dal Capo dello Stato quale Presidente del Consiglio superiore della Magistratura e del Consiglio supremo di Difesa, al fine di salvaguardare l’autonomia di due settori vitali dello Stato da qualsivoglia condizionamento di parte. Occorre la firma sia del Capo dello Stato, che del Presidente del Consiglio per tutti gli atti che hanno valore legislativo e per gli altri indicati dalla legge. La regola comune per gli atti privi del richiamato valore, è che debbano essere firmati dai Ministri proponenti, che ne assumono la responsabilità.
La necessaria compresenza delle due firme, non deve trarre in inganno circa la pariteticità delle volontà rilevabile dalle firme stesse, poiché nella netta maggioranza dei casi, si tratta di atti sostanzialmente ministeriali. Atti che la prevalente dottrina considera sostanzialmente presidenziali sono per esempio: la nomina dei Senatori a vita, quella di cinque Giudici costituzionali, l’invio di messaggi alle Camere cui si è accennato, il conferimento di onorificenze motu proprio, il potere di grazia.
Altri ve ne sono, non contemplati nella Costituzione, ma disciplinati da prassi ereditate dall’età regia e per i quali non si pone alcun problema di interpretazione circa la corrispondenza tra la forma e la volontà che vi è espressa, in quanto riferibili solo ed esclusivamente al Capo dello Stato: ci riferiamo al potere di concedere Alti Patronati, premi o di inviare messaggi in occasione di eventi di particolare rilevanza culturale, sportiva, commemorativa o celebrativa. Del pari la prassi regola le attribuzioni della Consorte del Presidente della Repubblica, qualora intenda affiancarlo pubblicamente nell’adempimento delle sue funzioni istituzionali.
Su due aspetti in particolare, però, ci sono stati scontri “forti”. Mi riferisco alla questione del Consiglio Supremo di Difesa, cioè al quesito posto dal Presidente Cossiga, su chi comanda in caso di Guerra. Mi riferisco anche alla questione del Csm.
“Questioni sorte quando il Presidente Francesco Cossiga volle utilizzarle per una sua interpretazione de jure condendo, in merito al diritto, per avviare surrettiziamente una Repubblica presidenziale. Tanto è vero che, anche all’interno del Quirinale, lui distinse il personale di ruolo da quello comandato a tempo. Definiva il primo selvaggina stanziale ed il secondo selvaggina di passo.
Nel corso di quel settennato le attività di reale supporto al Presidente furono esercitate prevalentemente dalla selvaggina di passo. In questo suo disegno si spiega il sovente appellarsi direttamente al popolo. Facendo venire inconsapevolmente meno quella centralità del Parlamento che è univocamente scolpita nell’attuale Costituzione e che il successore ripristinò.
Quella esperienza, però, deve essere considerata l’eccezione che conferma la regola. Anche perché quella sua foga fortemente innovativa deve essere vista quale conseguenza immediata della caduta del Muro di Berlino. Se quel muro non fosse caduto egli avrebbe probabilmente interiorizzato quei suoi progetti di trasformazione dello Stato”.
Però sulla questione della Presidenza del Consiglio di Difesa la vinse lui. Cioè in caso di guerra dovrebbe essere il Presidente della Repubblica a comandare.
“Già l’articolo 5 dello Statuto Albertino, come ricordo in un saggio nella Nuova Antologia, prevedeva che il Re avesse il comando delle Forze Armate ed il potere di stipulare trattati internazionali. Pertanto il Re si riservava direttamente la nomina dei ministri della guerra e degli Esteri.
Il conflitto con Giolitti nasce proprio quando lo statista di Dronero propone la modifica di tale articolo per togliere questa responsabilità politica al sovrano e riportarla nell’alveo di quelle governative”.
Questo potrebbe anche spiegare una parte dei motivi per cui Vittorio Emanuele III preferì Mussolini piuttosto che un ritorno di Giolitti. Lei come si spiega, però, che ci preoccupiamo del comando in caso di guerra alla luce del dettato costituzionale che la guerra la ripudia completamente.
“E’ stato ritenuto saggio rimandare ad un organo super partes una responsabilità morale, prima che giuridica. Le Forze Armate sono esercito di popolo e non di parte. Il Presidente della Repubblica, per le caratteristiche disegnate dalla Costituzione, assicura una funzione che potrei rendere in maniera semplice definendola asettica.
Sia sotto il profilo del comando della Forze Armate, sia sotto quello che concerne la presidenza del Consiglio Superiore della Magistratura. In un caso, assicura il carattere popolare del servizio svolto dai nostri uomini in arme; nell’altro, la imparzialità dell’amministrazione della Giustizia”
A proposito di Giustizia c’è stato il problema della Grazia. A causa delle questioni sorte con il caso Aldo Moro, sotto la presidenza Giovanni Leone, ed altri momenti critici successivi nei rapporti con i Guardasigilli.
“La Grazia è tornata nell’alveo dove doveva tornare. Cioè tra le competenze del Presidente della Repubblica. Una questione antica. Ai tempi della Monarchia si diceva che, in realtà, le sorti di un condannato dipendevano dalla digestione dello scritturale. Al Re giungevano giusto le richieste avanzate attraverso parlamentari o maggiorenti di allora. In tantissimi casi la questione si fermava sulla scrivania di un applicato di segreteria che metteva il si o il no. Perciò, in linea generale, non era il Re a decidere sulla Grazia, ma il Ministero di Grazia e Giustizia
In tantissimi casi la Costituzione repubblicana recepisce istituti dell’età regia per quanto riguarda la figura del Capo dello Stato.
“Torniamo agli inizi della nostra conversazione. Perché erano solo formalmente riferiti al Re quale interprete sacrale della Nazione. Quella configurazione è stata novellata con il Capo dello Stato nella realtà repubblicana. Per quanto riguarda, comunque, la Grazia c’è da considerare che il problema ha perso gran parte della sua intensità.
Ricordo che dalle 15.578 concessioni di Grazia di Einaudi, si è giunti alle 23 del trascorso settennato Napolitano, perché, con tutti i provvedimenti sostitutivi o di alleggerimento della costrizione carceraria, introdotti dal legislatore, c’è sempre stato meno bisogno dell’intervento della sovrana clemenza.
Da cittadino e da giornalista resto spesso colpito dal gran numero di leggi cancellate, in tutto o in parte, dalla Corte Costituzionale. Il Quirinale non dovrebbe fare anche da “filtro”?
“Il Capo dello Stato, se posso usare una immagine molto espressiva, è il pronto soccorso per le prime cure. Per le patologie più serie e non riscontrabili alla visita del pronto soccorso occorre quel gruppo di specialisti costituito dalla Corte Costituzionale. In casi macroscopici il Presidente non ha solo la facoltà, bensì il dovere di rimandare la legge in Parlamento. I suoi poteri in materia, però, sono quelli che sono: può dare solo una volta il semaforo rosso. Il problema, dopo, trascende i poteri del Quirinale…”.
Abbiamo un’idea su quanti leggi sono state rimandate al Parlamento dal 1946 ad oggi?
“Non più di sette, otto a Presidente. Il maggior numero di rilievi fu fatto nel secondo periodo della presidenza Cossiga. Ma la cosa deve essere inserita in quel particolare contesto…”
Questo che viviamo è un periodo caratterizzato dalla estrema sensibilità di tutti nei confronti della spesa della “ politica” e delle istituzioni. Ogni tanto si sente fare anche un accenno ai costi del Quirinale. C’è chi fa i riferimenti alle minori spese richiesta da “Buchingham Palace”.
“Consideriamo che il Quirinale non ebbe una connotazione diversa dal resto delle Pubbliche Amministrazioni, in ordine alla lievitazione delle spese che avvennero in passato, dovute in parte anche alla proliferazione di figure apicali. Oggi la situazione del Quirinale è paradigmaticamente esemplare: il bilancio di previsione per il 2013 dell’Amministrazione della Presidenza della Repubblica, ultimo del settennato del Presidente Giorgio Napolitano, conferma una dotazione a carico del bilancio dello Stato di 228 milioni di euro, pari a quella del 2008, a fronte di un’inflazione che rispetto ad allora ha raggiunto al 31.12.2012 la misura complessiva del 10,6 per cento in base all’indice dei prezzi al consumo.
Il paragone con Buchingham Palace è improprio. Molti non sanno che quel palazzo attinge non solo mezzi pubblici ma anche mezzi privati della Corona: se è vero che il costo totale della Monarchia britannica è di 41 milioni di sterline l’anno ( 45 milioni di euro circa), è altresì vero che la Corona inglese può fare affidamento su di un compendio beni che, se venissero trasformati in un’azienda e quotati in Borsa, varrebbero oltre 44 miliardi di sterline (circa 54 miliardi di euro).
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