PROCESSI E CRONACHE GIUDIZIARIE TRA BERGAMO E VENEZIA. SECOLI XVI-XVIII – Segnalazione del libro di monsignor Ermenegildo Camozzi, edito da Gangemi Editore, sull’edizione bergamasca del Corriere della Sera – sezione Cultura di sabato 23 giugno 2012
PROCESSI E CRONACHE GIUDIZIARIE TRA BERGAMO E VENEZIA. SECOLI XVI-XVIII – Segnalazione del libro di monsignor Ermenegildo Camozzi, edito da Gangemi Editore, sull’edizione bergamasca del Corriere della Sera – sezione Cultura di sabato 23 giugno 2012
DALL’ARCHIVIO SEGRETO VATICANO
I vizi ai tempi di Venezia
Storie di donne e di gioco. E per pena tre anni in ceppi ai remi
Il leone di San Marco
C’è la storia di fra Marco Garofalo, settantacinquenne col «mal francese» e che con le mani «piene di croste et impiagate» racconta al vicario vescovile di Bergamo Marco Antonio Salomone la sua vita, trascorsa per lo più fuori dai conventi, dopo essersi procurato false licenze per risiedere «extra clausura»: decenni di poco edificanti avventure si concludono con il suo arresto – nel gennaio 1583 a Cornalita – e la condanna a tre anni di galera come rematore nella flotta della Serenissima per aver contravvenuto alle disposizioni dei superiori non rientrando in convento e celebrando messa senza autorizzazione, per le false licenze e per aver scommesso denaro giocando pubblicamente a carte e dadi… C’è il racconto del viaggio senza ritorno da Camerata Cornello a Bergamo di don Paolo Orsini e fra Antonio Vernadel, arrestati mentre desinavano nella casa di una «ruffiana» in città bassa, dopo che era andato a vuoto il loro tentativo di convincere una giovanissima meretrice contraria «ad usar con religiosi»: condannati a due e tre anni di triremi in ceppi, a digiunare un giorno alla settimana e a stare a pane e acqua tutti i venerdì recitando in ginocchio i salmi penitenziali, si videro mitigare la condanna del vescovo di Bergamo dal nunzio apostolico di Venezia (punto di riferimento per gli affari ecclesiastici) al quale avevano fatto ricorso: questi il 23 maggio 1583 mutò la pena alle triremi nel carcere.
C’è la vicenda del canonico della cattedrale di Bergamo Andrea Paganelli, indagato per l’affitto di alcuni possedimenti pretesi dal pio cavaliere Matteo Antonio Correggio a favore del quale depongono – nel gennaio 1584 – diversi testimoni residenti fra Mapello e Pontida, nominati da Rodomonte Rota… Ma c’è anche la ricostruzione di una causa d’appello per un’operazione finanziaria legata a un’ eredità fra un altro canonico della cattedrale – tale Nicolò Lio, insolvente – e i fratelli Lorenzo e Leonardo Lauredano, che nel maggio 1598 rientrano in possesso dei 500 ducati lasciati dal padre deceduto anni prima… Oppure – dell’ aprile 1605 – scopriamo il ricorso al vicario del vescovo di Bergamo Bernardino Costa, da parte del priore dei Crociferi di San Leonardo, padre Federico Clari, accusato per presunte irregolarità nel bilancio del convento. E poi una serie di processi fra laici soprattutto per questioni matrimoniali (e nozze dichiarate e per tutti i motivi immaginabili: dalla costrizione all’impotenza) o, ancora, riguardanti il clero secolare, oppure circa rapporti fra parrocchie confinanti, rivendicazioni di questa o quella frazione, per il rifiuto all’unione fra due comunità parrocchiali o l’ istituzione di una nuova, circa le investiture di cappellanie, con casi esemplari concernenti diritti e doveri dei cappellani… C’è tutto questo e molto altro ancora nel volume di monsignor Ermenegildo Camozzi «Processi e cronache giudiziarie tra Bergamo e Venezia. Secoli XVI-XVIII» (Gangemi Editore, pagg. 287, euro 28), appena arrivato in libreria.
Nelle pagine intessute dall’erudito sacerdote bergamasco sui fascicoli processuali custoditi a lungo nell’Archivio della Nunziatura Apostolica a Venezia, e oggi conservato presso l’Archivio Segreto Vaticano (dove confluirono fra il 1836 e il 1841), c’è però, innanzitutto, il vivido affresco giudiziario di un’epoca bergamasca dove si percepiscono ansia di verità e paura della pena, desiderio di rivalsa e senso di giustizia, spudoratezza e ipocrisia… Sensazioni e atmosfere che ci giungono attraverso l’eco delle voci dei protagonisti di queste vicende (ecclesiastici e laici, anonimi o appartenenti a ben note famiglie della nobiltà), uscite per la prima volta da gonfie buste d’archivio, scovate da un autore che ha già alle spalle diversi titoli di storia bergamasca (si ricordano almeno «Visite ad limina apostolorum dei vescovi di Bergamo, 1590-1921», la monografia «Gaetano Camillo Guindani, vescovo di Bergamo e la questione della Mensa vescovile» insieme a Rosetta Morelli e monsignor Goffredo Zanchi; «La chiesa e la questione sociale il caso di Bergamo» con Paolo Tedeschi), oltre che un’intensa attività all’ombra del Cupolone (dall’inizio degli anni ’70 alla fine degli anni ’90 ha prestato servizio come officiale presso la Segreteria di Stato vaticana e operato come addetto di Nunziatura negli uffici delle rappresentanze pontificie).
Vicende giudiziarie – quelle da lui raccontate, atti alla mano – che coinvolgono in prima persona rappresentanti del clero bergamasco di Antico Regime, soggetto, fino al Trattato di Campoformio del 1797, alla giurisdizione della Nunziatura veneta, rappresentante l’autorità papale. Ai tanti processi citati nell’introduzione con diverse cronache – nitido specchio dei vizi del tempo – seguono dodici vertenze, precedute da sintesi dell’intero dossier giudiziario, poi descritte nei dettagli seguendo le deposizioni rese in lingua volgare dai testimoni o dagli imputati di fronte ai giudici della corte. Per Camozzi: «L’autenticità dei fatti narrati, spesso al limite delle reali vite vissute, confinanti con le fantasie del romanzo, porta in un mondo quasi irreale, che tuttavia non è dissimile dal nostro, quando si pensa al rapporto conflittuale tra libertà e legge. Così mentre i fatti aberranti di quel tempo diventano per il lettore di oggi motivo di svago, analoghe vicende che accadono oggi suscitano commiserazione e indignazione, per quei complessi meccanismi psicologici legati forse al coinvolgimento emozionale, alla vicinanza temporale dei fatti, all’immedesimazione di noi nelle altrui sventure». «Ma nell’un caso e nell’altro – conclude – quantunque la storia sia maestra di vita, non si può, pur vanamente, non auspicare che i tristi fatti di violenza, di soprusi, di sangue e ogni altra abiezione che possa nuocere alla salute dell’animo umano – sia per le vittime che per i carnefici- cessino di perpetuarsi tanto nella realtà quanto nelle carte d’archivio».
MARCO RONCALLI
23 giugno 2012 (modifica il 25 giugno 2012)
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